I Barabba’s Clowns

I Barabba’s Clowns

 

Il nome è originale, l’abbiamo scelto per dire una grande

verità: «in tutti i ragazzi, anche nei più discoli, c’è un seme di

bontà», una frase che riecheggia quella di don Bosco, il santo dei

giovani, ma anche quella di Bruno, un nostro ragazzo che, a chi

lo definiva «mela marcia», rispondeva che «anche le mele marce

hanno i semi buoni».

Noi Barabba’s con i nostri spettacoli clown andiamo in giro a

dire questo: nelle scuole, nelle palestre, nei teatri ed anche in

piazza, in Italia e all’estero.

Non siamo giunti tanto facilmente a scoprire la figura del

clown.

Ad Arese si è sempre fatto del teatro: i ragazzi di strada o

«difficili», come un tempo li definiva la gente, hanno sempre fatto

teatro a casa, a scuola, allo stadio, all’oratorio, nelle periferie

delle grandi città.

Al Centro fin dall’inizio erano impegnati in spettacoli corali,

ai quali partecipavano tutti come attori, cantanti, tecnici.

A volte erano operette musicali, a volte azioni corali, testi che

sfioravano lo psicodramma.

Siamo andati in crisi con il testo di don Luigi, La gabbia, che

abbiano rappresentato con vivo successo e partecipazione di

pubblico al teatro San Babila e al San Fedele di Milano, a

Sondrio, Torino, Roma…

«Non rappresentavamo dei personaggi di fantasia, ma noi

stessi, la nostra vita, i nostri drammi in famiglia e tra gli altri,

che ci rifiutavano, emarginavano. Nel testo erano stati inseriti «i

casi tipici» vissuti da noi o dai nostri compagni in riformatorio:

l’arresto, la pubblicità sui giornali, l’abbandono della madre,

l’aggressività del padre-padrone, lo sfruttamento lavorativo, la

condanna vendicativa delle istituzioni, la rabbia contro le autorità,

l’incredulità e il rifiuto di un Dio disumano, lontano dal

nostro mondo, la voglia di morte, la privazione della libertà…

Lo urlavamo, lo cantavamo… per sensibilizzare la gente al

problema dei giovani in difficoltà, invitarla non a demonizzali ma

a chiedersi il perché un ragazzo è aggressivo, scappa, ruba, si

droga».

Il pubblico non era solo spettatore ma era coinvolto, coattore,

partecipe. Nell’intervallo veniva distribuito un questionario

al quale doveva rispondere suggerendo il «che fare» per

questi ragazzi, che li provocavano dall’interno della «Gabbia».

A Torino, il pubblico di giovani studenti, più di 800, ha

lasciato la sala dopo avere imparato i canti dello spettacolo.

Eccezionale! Tutto bene o…? Per la maggior parte dei

ragazzi, sì, ma alcuni sono andai in crisi: Tonino, nel sentire la

sirena della polizia, riandava al giorno dell’arresto del papà che

gli aveva ucciso la mamma sotto gli occhi.

Mimmo non voleva più recitare la parte del «Salvatore», perché

era rientrato nel mondo delle «canne», quello degli «spinelli»…

Una sera ci aspettavano a Seregno in un teatro gremito di

giovani, ma i ragazzi non ce l’hanno fatta a salire sul pullman

per il disagio che si era diffuso in troppi di loro.

Avevano deciso di tacere sulle loro storie: «Basta lacrime!».

Fischi dal pubblico, al quale l’anno dopo, per riparare al

mancato spettacolo, abbiamo presentato un «Don Chisciotte»

con i clown.

Ancora una volta è stato don Luigi a venirci incontro,

mandandoci un Clown di quelli veri, Bano Ferrari, che stava

collaborando alla sua rivista, Espressione Giovani.

È stato un innamoramento a prima vista, un vero colpo di

fulmine. Non è stato un amore part-time ma fedele, dal sapore

antico, nostrano. È stata come un’apparizione sulle nostre scene,

un qualcosa di magico e misterioso, di gioioso e triste insieme.

Abbiamo iniziato «facendo il Circo». Ci piaceva questo

clown, così vicino alla nostra vita errante e vagabonda, al

margine come noi, spiantato e squinternato come noi, ragazzi

guasti dei nostri quartieri.

Il clown è stato per noi una scelta di umanità, un’uscita di

sicurezza dalla disperazione, un ritrovare la voglia di sorridere

per far sorridere, per dare speranza.

Clown dalla parte del cuore, un linguaggio eterno, che sopravvive

al linguaggio della violenza, della guerra, dell’ingiustizia.

Il clown da noi generato sorride della logica dei potenti, vive

nelle dimensioni della gratuità che conta più degli egoismi, degli

affetti che contano più dei soldi, del candore che conta di più

delle trame dei furbi, del perdono e della riconciliazione che

contano di più della vendetta.

Siamo più della razza degli Augusto, che del Bianco, di cui

parla Federico Fellini.

Abbiamo letto con i clowns il libro della Genesi e da quelle

pagine è nata «La ri… creazione», la creazione del mondo

secondo il clown.

E poi il libro di Giona ed è nato uno degli spettacoli più

rappresentati in Italia, «Gio & Na», e poi «L’arca di Noè», «Mio

nonno don Chisciotte», «Le Olimpiadi del clown» …

Alcuni di noi sono diventati professionisti: da Procopio a

Kerido Clown alla coppia Ciccio & Bomba, a William…

I più giovani che si sono alternati al Centro hanno dato spettacoli,

legati dal filo rosso della solidarietà: «Un sorriso con i

poveri» del Perù, della Bosnia, ora del Rwanda, paese che

abbiamo privilegiato dopo il genocidio del 1994.

Alcuni di noi, come Kerido Clown, sono stati in Afganistan,

nel Kerala, nello Sri Lanka; Sergio in Madagascar e Brasile,

Gian Luca in Georgia e Ucraina; i più giovani, tra i gitani della

Spagna, in vari paesi dell’Europa che conta, come la Svizzera e

la Germania.

In Italia siamo stati al Nord, al Sud, sulle isole, là dove ci

hanno invitato.

«Siamo stati dei “mostri” di bravura? Pensiamo di no, ci

siamo dati da fare, sostenuti da forti motivazioni e dalla voglia di

far sorridere la gente, aiutandola anche a pensare».

Il percorso fatto per diventare Barabba’s? 

Abbiamo seguito validi maestri: Bano, Carlo, Piero e Valerio,

i nostri amici «fool», della Filarmonica Clown.

E poi ci ha guidato per anni anche Roberto Abbiati, un clown originalissimo,

ottimo scenografo e disegnatore, mimo e musico e

con lui parte del teatro D’Artificio, Carlo Pastori, un clown che dalla fisarmonica ha saputo trarre

struggenti melodie, che hanno accompagnato i nostri spettacoli.

Se abbiamo fatto bella figura lo dobbiamo anche alle scene di

Cesare Calvi, un pittore bergamasco dalla fantasia fervida e dal

tratto inconfondibile per colore, magia e fantasia. La figura del

clown è fuori del tempo, ma anche un segno dei tempi.

Nei tempi recenti Ferruccio Cainero, clown e cantastorie

dalla profonda cultura che ci ha fatto avvicinare alla Commedia dell’Arte

e alla comedy moderna.

Infine Marcello Chiarenza, poeta dell’infinito, regista e coreografo, sceneggiatore e attore.

Con lui abbiamo toccato quel cielo di stelle dove abbiamo sempre sognato di far capriole.

 

 

 

 

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